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Non è la conoscenza delle parole

che mi rende capace di comprendere le cose,

 ma piuttosto l’esperienza mia personale delle cose

che mi fa pronto a seguire il significato delle parole.

Plutarco

Chi parla una lingua che nessuno capisce, non parla, eppure la comunicazione non verbale a volte subentra prepotentemente in quella verbale. L’osservazione dei movimenti di intenzione, dei segni emessi dal nostro interlocutore, siano essi gesti, espressioni del viso, inflessione della voce o micromovimenti del corpo, ci dà informazioni importantissime sulla natura della relazione molto più specifiche e precise di qualsiasi discorso. Parlare, tuttavia, significa parlare a qualcuno, e questo determina non solo che la parola rappresenti a me stesso la cosa intesa, ma che quella parola renda presente la cosa agli occhi dell’altro cui io parlo. In questo senso, il parlare non appartiene alla sfera dell’io ma del noi e in particolare alla sfera del colloquio.

“La parola autentica che ha da dirci qualcosa. E che perciò non si serve di segnali convenzionali. Cerca le parole con l’aiuto delle quali si possono raggiungere gli altri.” (Cit. H. G. Gadamer, Verità e metodo). La realtà della lingua consiste proprio nel colloquio in cui si avverano lo scambio e la comunicazione corrente tra l’Io e il Tu. La parola, che come sostiene Lacan, è essenzialmente ambigua, diviene effettivamente parola significativa solo nel momento in cui chi la proferisce, al contempo, vi crede. “Essa è il mezzo per essere riconosciuti. Ma è altresì ambivalente e insondabile. Non ha mai un senso univoco né un unico termine, ma ha sempre un al di là, sostiene diverse funzioni, racchiude differenti sensi. Senza questa dimensione dell’ambivalenza, peraltro, la comunicazione sarebbe solo qualcosa di trasmettibile di tipo quasi meccanico.” (Cit. J. Lacan, Le séminaire de Jacques Lacan. Livre II.) Per Lacan vi sono almeno due piani su cui si svolge lo scambio della parola umana: il piano del riconoscimento, dove la parola stipula fra i soggetti il patto che li trasforma e li costituisce come soggetti umani comunicanti; e il piano del comunicato, in cui distinguiamo la discussione, l’appello, l’informazione e la conoscenza, che tende a creare l’accordo sull’oggetto. Quest’ultimo, nonostante venga inteso nel sistema oggettuale e oggettivo come dato di fatto, trae validità reale e quindi vive, solamente in funzione della parola. “Cosa significa l’appello nel campo della parola? La possibilità! L’appello non implica il rifiuto né alcuna dicotomia, ma è nel momento in cui si produce l’appello che si stabiliscono nel soggetto le relazioni di dipendenza.”  (Cit. J. Lacan, Le séminaire de Jacques Lacan. Livre II.)

L’essere umano, che nasce in uno stato di impotenza totale, dapprima inizia ad imporsi tramite urla e grida, poi impara ad utilizzare le parole nella loro funzione di appello, per richiedere attenzione al soddisfacimento delle sue funzioni basiche. Questo fatto costituisce già il primo nucleo di uno stato di dipendenza dall’altro, non ancora propriamente umano. É solo quando il bambino riesce a proferire un nome, che il suo appello si trasforma in una richiesta simbolica ed egli diventa veramente umano. L’uomo, che risulta l’unico essere dotato di linguaggio, vi si trova già inglobato fin dalle sue prime esperienze. Attraverso dei segni che sono fissati come segni espressivi, egli riesce a rappresentare e comunicare sul mondo oggettivo. Il linguaggio, in sostanza, è una necessità vitale ed esistenziale, e permette l’accesso al mondo tramite la rappresentazione, collegando, simbolicamente, l’uomo al suo ambiente. In sintesi noi siamo sempre già anticipati, nel conoscere e nel pensare, dall’interpretazione linguistica del mondo. Rappresentarsi il quale equivale ad iniziare un dialogo a partire dalla parola. Il soggetto, infatti, si manifesta proprio nella forma della produzione verbale di un discorso organizzato, che si esplica in almeno tre livelli. Se il livello dell’enunciato, ovvero quello in cui collochiamo tutto ciò che concerne la natura del soggetto, si situa sul piano naturale, il secondo livello, o dell’imperativo, chiamato dell’appello, viene definito dal tono in cui l’imperativo viene dato. Il terzo è quello della comunicazione vera e propria, e riguarda propriamente ciò di cui si tratta e il riferimento all’insieme della situazione. Poiché il bisogno di farsi riconoscere è il leitmotive di tutti i discorsi della vita quotidiana, prima ancora dell’introduzione del no, del rifiuto dell’altro, in cui il soggetto impara a costituire la negativizzazione del semplice appello, la manifestazione di una semplice coppia di simboli, di fronte al fenomeno contrapposto della presenza e dell’assenza e cioè l’introduzione del simbolo, inverte le posizioni. “L’assenza viene evocata nella presenza e la presenza nell’assenza. Nella misura in cui il simbolo permette questa inversione, ovvero annulla la cosa esistente, esso inaugura il mondo della negatività, che costituisce contemporaneamente il discorso del soggetto umano e la realtà del suo mondo in quanto umano. Il masochismo primordiale è da situare attorno a questa prima negativizzazione, questo assassinio originario della cosa.” (Cit. J. Lacan, Le séminaire de Jacques Lacan. Livre II). Freud, per primo, ha mostrato come la parola, ovvero la trasmissione del desiderio, può farsi riconoscere attraverso qualsiasi cosa, purché questa sia organizzata in un sistema simbolico. “La parola è quella dimensione attraverso la quale il desiderio del soggetto viene autenticamente integrato sul piano simbolico.” (Cit. S. Freud, Sulla psicanalisi). Solo al momento della sua formulazione, tramite parole, il desiderio, nominato davanti all’altro, può finalmente ottenere pieno riconoscimento. Per Freud la parola chiave deve essere incarnata nella storia del soggetto. Ogni integrazione simbolica riuscita, però, comporta una sorta di oblio normale. Per Heidegger, invece, in ogni ingresso dell’essere nella sua abitazione di parole c’è un margine di oblio, un logos complementare ad ogni aleteia. Ma per giungere all’integrazione dell’essere bisogna, tuttavia, che l’uomo dimentichi l’essenziale. Il linguaggio, quindi, ha una funzione di trasmissione e contestualmente di comunicazione, laddove la parola, invece, è fondativa e ricopre il ruolo, addirittura, di una rivelazione. Il linguaggio, infatti, oltre alla trasmissione di nozioni e informazione, è cruciale nel ruolo di convalida e oggettivazione di tutto ciò che senza di esso rimarrebbe una forma solipsistica di percezione del mondo. Il linguaggio pur essendo fondante, per dirla con Heidegger, rimane pur sempre al livello dell’indifferenziato. Esso è un mondo di segni che esiste indipendentemente da noi e opera a livello universale. Noi, d’altro canto, non ci troviamo mai di fronte ad esso in una condizione muta e cerchiamo sempre di raggiungere lo strumento per comprenderlo ampliandone il suo raggio d’azione. Il nostro mondo, quindi, è dato dalla configurazione che ce ne dà il linguaggio. Esso mostra il significato del mondo attraverso la forma della comunicazione umana, o in termini heideggeriani, il linguaggio apre un mondo di senso, ma ne decreta contestualmente il limite, perché, come sosteneva Adorno: “Il compito del pensiero è quello di determinare il punto in cui la deducibilità trova il suo limite.”

La parola invece è mediazione fra il soggetto e l’altro e implica la realizzazione dell’altro nella mediazione stessa. Per Lacan l’elemento essenziale della realizzazione dell’altro è che la parola possa unirci a lui. “Essa ci porta interamente nel versante dove si aggancia all’altro.” (Cit. J. Lacan, Le séminaire de Jacques Lacan. Livre XVII). La degradazione della parola nel suo rapporto con l’altro genera l’oblio e la dimenticanza e qui entra in gioco la resistenza. Essa si produce nel momento in cui la parola, mediatrice, non viene più espressa. “La resistenza in questione proietta i suoi risultati sul sistema dell’io, nella misura in cui il sistema dell’io non è nemmeno concepibile senza il sistema dell’altro. Il livello a cui è vissuto l’altro quindi, situa il livello al quale letteralmente l’io esiste per il soggetto.” (Cit. J. Lacan, Le séminaire de Jacques Lacan. Livre XVII).  L’obiettivo per una sana comunicazione è operare all’interno di quella zona interpsicologica fra ego e alter ego, a cui si riduce la degradazione del processo di parola. Poiché non v’è scambio possibile se non attraverso l’identificazione reciproca di due universi completi del linguaggio, la parola viene a costituire il terzo elemento del transfert, e rappresenta anche l’unico ambiente in cui esso può avvenire. Ciò di cui ci si occupa esattamente nel transfert, dunque, altro non è che la presa di possesso di un discorso palese da parte di un discorso mascherato, ovvero quello dell’inconscio. Il transfert, infatti, avviene sul piano dell’immaginario. L’amore, parimenti, è un fenomeno che interessa l’immaginario e provoca una vera e propria sorta di annullamento e perturbazione totale dell’ideale dell’Io. Ora questo ideale dell’Io è l’altro in quanto ha con me una relazione simbolica, è un altro parlante. Infatti, come precisa Lacan, lo scambio simbolico è ciò che lega tra loro gli esseri umani e permette di identificare il soggetto tramite la parola. In altri termini, l’amore non è nient’altro che il proprio Io realizzato a livello immaginario, l’Io che si ama nell’amore. “É a partire da questo che ascoltiamo colui che parla. E non dobbiamo fare altro che riferirci alla nostra definizione del discorso dell’inconscio, che è il discorso dell’altro, per comprendere come raggiunga autenticamente l’intersoggettività in quella realizzazione piena della parola che è il dialogo. (Cit. J. Lacan, Le séminaire de Jacques Lacan. Livre II). Il discorso, in questo senso analitico, si mette in rapporto con un altro divenendone il supporto. In definitiva il transfert consiste nell’atto della parola, portatrice di cambiamento e ristrutturazione. Ogni volta che un uomo parla ad un altro in modo autentico avviene il transfert, ovvero qualcosa che muta la natura dei due esseri in causa e permette conoscenza.

Elena Beninati

Giugno 2019