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Intervista a Sami Aidoudi, mediatore culturale per il progetto INLIMINE dell’Associazione Studi Giuridici per l’Immigrazione ASGI

Sami è nato a Tataouine e studia Belle Arti. Nel profondo sud tunisino, al confine con la Libia non c’è guerra ma nemmeno lavoro. Mancano i servizi base per una città di 90.000 abitanti e proseguire gli studi implica avere un grande budget, che Sami non ha.

2011. Post rivoluzione. La situazione economica peggiora, quella civile anche. Decide, come molti ragazzi di belle speranze, di partire. Vola in Serbia, Paese che non richiede visto ai tunisini, e sbarca in Italia, pensando di raggiungere la Francia, legalmente, e chiedere asilo. Ma all’aeroporto di Roma in perfetto francese chiede indicazioni per raggiungere l’ufficio immigrazione e regolarizzare la sua presenza. Un poliziotto che avanza pretese linguistiche lo avvicina: io parlo francese. “Arab de merd” è tutto quello che sa dire. Sami è condotto senza essere ascoltato (c’è da chiedersi in quale lingua a questo punto) dritto al Commissariato. La procedura in quest’ufficio è “internazionale”: mettere pressione, a torto o a ragione, indipendentemente, aprioristicamente, e il tutto nell’equivoco linguistico degno di un Paese che (non) vanta secoli di storia…

<<Sono rimasto alcuni giorni in cella, umiliato e picchiato senza avere la possibilità di essere ascoltato. Poi qualcuno ha avvertito gli uffici della regolarità della mia presenza e alle 22.20 del quarto giorno, durante un controllo notturno, vengo salvato.>>

<<Ho diritto ad essere accolto. Inizia l’iter burocratico e stagiono al centro d’accoglienza, come molti, per i primi 3 mesi. Lavoro clandestinamente. Un solo anno e 7 mesi e ottengo il mio primo permesso di soggiorno. Sono felice. Parto, vado in Francia ma ormai sono mezzo italiano e mi stabilisco a Roma. Incontro mia moglie… Sono laureato alle Belle Arti ma lavoro come operatore sociale nei centri di accoglienza.>>

Sami oggi partecipa al progetto INLIMINE di Asgi, l’Associazione di studi giuridici per l’immigrazione che fornisce un servizio di informazione, supporto e assistenza legale ai migranti, e a chiunque abbia i presupposti per richiedere l’asilo, subito dopo il loro arrivo nelle coste, non avendo l’autorizzazione per accoglierli allo sbarco.

<<Dopo l’entrata in vigore del decreto sicurezza bis i nordafricani sono stati etichettati migranti economici… ma la Tunisia non è un porto né un Paese sicuro. La politica è alla merce di equivoci interessi (come in tutto il mondo aggiungerei) ma il nostro popolo non è avvezzo alla violenza come vogliono far credere.>>

Tunisia Paese di passaggio. Purgatorio per chi resta al confino, nel limbo delle impossibilità, in fittizi centri di accoglienza che non accolgono nemmeno le speranze di gente attonita e in fuga. In generale mancano i servizi ma soprattutto il Paese non concede protezione internazionale. La maggior parte dei migranti in transito è totalmente disinformata, proviene dalle regioni subsahariane e dal Corno d’Africa e non sa cosa li attende alla frontiera.

Sami in Tunisia girano le armi ma chi arma i terroristi?

<<Gli stessi che seminano paura per distrarre l’opinione. Noi non siamo abituati al sangue. Subiamo la violenza ma non è peculiare. Per anni la questione libica ha rappresentato la grande scusa per l’inattività e la crisi economica tunisina, ma è evidente che la guerra non può essere un deterrente universale.>>

E i rapporti fra libici e tunisini?

<<Nel 2011 i tunisini hanno aperto le loro case per i vicini libici, il popolo ha sempre accolto, nonostante il tradimento libico degli anni successivi. Il governo non ha fatto molto invece, né all’interno né alle frontiere. E la solidarietà fra i due governi è finita da un pezzo…>>

Elena Beninati

18 luglio 2019 Palermo.